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Unimondo

Unimondo, 8 Febbraio 2015

L’industria chimica è ancora sulla “cattiva strada”

Quando Fabrizio de Andrè assieme a Francesco de Gregori scrissero nel 1975 “La cattiva strada” non avevano certo in mente le scelte commerciali delle multinazionali della plastica o quelle della Bayer ancora impegnata nella produzione di materie altamente tossiche come il TDI, uno dei cosiddetti isocianati usati come schiuma nei sedili delle automobili, nelle scarpe e nei materassi. Eppure le due notizie di oggi possono essere facilmente lette così: l’industria chimica è ancora sulla “cattiva strada” incurante delle ricadute di questo successo industriale e commerciale che ha prodotto dagli anni ‘40 ad oggi gravi conseguenze sulla nostra salute e sull’ambiente, come la ribattezzata Isola dei rifiuti, meglio conosciuta come Pacific Trash Vortex.

Senza dimenticarci l’esistenza di quest’isola dello scempio, un monumento al disastro grande quanto il Canada, iniziamo con il domandarci se la plastica è ancora un materiale utile. Sicuramente sì, migliora la conservazione dei cibi, riduce la massa degli imballaggi rispetto ad altri tipi di packaging, limita il peso e il costo di molti oggetti di uso comune, è indispensabile in molte nuove tecnologie rinnovabili ed i notevoli progressi nel riciclo e nella produzione dei sostituti “biodegradabili” rendono ancor più vera questa affermazione. Tuttavia visto che, secondo la recente analisi del Worldwatch Institute “Global Plastic Production Rises, Recycling Lags”, uscita il 28 gennaio, ognuno di noi consuma 100 kg l’anno di plastica, è quanto meno indispensabile che “i benefici ambientali e sociali delle materie plastiche siano valutati rispetto ai problemi che crea la longevità e il massiccio volume di questo materiale nel flusso dei rifiuti”.

Dal 1950 al 2012 la produzione di plastica è aumentata in media dell’8,7% l’anno, passando da 1,7 milioni di tonnellate l’anno alle circa 300 dei nostri giorni, sostituendo man mano sempre più materiali come vetro, legno, metallo e carta. Non siamo più noi, però, paesi “sviluppati” che hanno prodotto la buona parte di questo “flusso di rifiuti” a gestire la produzione mondiale della plastica da materiali vergini provenienti da quel 4% di petrolio mondiale estratto per diventare materialmente plastica. Nel 2013 l’Asia ha prodotto il 45,6% di tutta la plastica in commercio e con un trend ancora attuale la Cina da sola ha coperto circa il 25% della produzione mondiale sorpassando l’Unione europea già nel 2010 in questo business tossico ed inquinante. In Cina, infatti, è ancora marginale la produzione di bioplastiche, anche se, secondo il Worldwatch, “i reali benefici e gli impatti di questi prodotti sono ancora sconosciuti”.

Oggi, per il Worldwatch Institute, ogni cittadino nordamericano o europeo consuma in media 100 kg di plastica ogni anno (in Asia i kg sono solo 20, ma in costante ascesa) che ritrova in tantissimi settori industriali a cominciare da quello del packaging, “che da solo assorbe in Europa il 40% della domanda di plastica”. È come se ognuno di noi ogni giorno consumasse circa 3 etti di plastica, una cifra che è destinata ad aumentare i galleggianti confini del Pacific Trash Vortex e quelli delle discariche cinesi. Sì perché secondo l’analisi del Worldwatch Institute l‚Europa esporta circa la metà della plastica che raccoglie e che non viene riciclata proprio in Cina, dove viene smaltito il 56%, in termini di peso, dei rifiuti di plastica importati al mondo. Non importa dunque dove finiscano, l’importante è che non vengano smaltiti “nel mio giardino” mentre la politica prende tempo e non obbliga a produrre e quindi ad acquistare solo prodotti realizzati con materiale riciclato.

Secondo le analisi del Worldwatch “Le aziende dovrebbero passare a un maggior utilizzo di plastica riciclata, e i governi dovrebbero regolamentare la filiera della plastica per monitorarne e incoraggiarne il riciclo”, magari ipotizzando situazioni incentivanti come l’Iva agevolata sui riprodotti da materiali riciclati. Una questione ambientale, certo, ma anche industriale che vale anche per altre tipologie di prodotti con le stesse pericolose caratteristiche. È il caso del di-isocianato di toluene (TDI) usato in molti oggetti di uso comune e che sarà prodotto dalla Bayer nell’impianto aperto in dicembre a Dormagen con una produzione annua di 300.000 tonnellate. Secondo Friends of the Earth e la Coalizione contro i pericoli derivanti dalla BAYER (CBG) il nuovo impianto è gravemente dannoso per l’ambiente perché per ogni tonnellata di TDI si producono 5 tonnellate di anidride carbonica e al momento la multinazionale tedesca si è rifiutata di fornire previsioni dettagliate dell’uso di risorse e energia.

“La produzione di TDI è un segno che l’industria chimica è sulla cattiva strada – ha spiegato Philipp Mimkes di CBG Germania – Come prodotti intermediari si usano sostanze altamente tossiche come il fosgene o il monossido di carbonio e la produzione è ad alto consumo energetico. Per di più i poliuretani non si decompongono e quindi finiscono presto nelle discariche o negli oceani”. Mimkes ha per questo chiesto “una conversione industriale verso risorse naturali rinnovabili, prodotti finali biodegradabili e una politica economia più sostenibile”. Dello stesso avviso è Angelika Horster di Friends of the Earth Germania secondo la quale “Il credo dell’industria è crescita, ma questa crescita va a braccetto con ulteriori emissioni e un enorme uso di risorse. Così, nel caso del TDI, il piccolo incremento in efficienza sarà eclissato dai maggiori sprechi di produzione”.

Gli incidenti negli impianti della Bayer per la produzione di TDI non sono una novità e “quelli nell‘impianto della Bayer di Institute (USA) o alla INEOS di Dormagen dimostrano che certi disastri non hanno sviluppi prevedibili e perciò bisogna adottare precauzioni anche per scenari improbabili” ha ricordato Mimkes. La Coalizione critica per esempio il fatto che l’impianto è a soli 300 metri da una stazione ferroviaria, quando, per il fosgene, la Commissione tedesca per la sicurezza degli impianti raccomanda una distanza di 1.500 metri. Per il momento la domanda dei gruppi ambientalisti di erigere un muro di cemento attorno a tutte le parti dell’impianto che ospitano fosgene non è stata soddisfatta ed il perimetro è stato invece chiuso con lastre di metallo che non resistono ad un incendio intenso. Per gli ambientalisti è necessario non smettere di tenere sotto pressione industriali e politici. Mentre l’industria ragiona solo pensando al profitto, alla società civile spetta affrontare con urgenza le conseguenze di molte produzioni industriali, prendere coscienza delle ricadute devastanti su ambiente e salute e, infine, costringere la politica a scelte più consapevoli e lungimiranti.
Alessandro Graziadei